Nuove prospettive terapeutiche basate sull’impiego di farmaci per elevare la soglia del dolore 

La fisiopatologia del dolore ci insegna che vi sono vari meccanismi patogenetici che attivati da diverse lesioni tessutali o nervose provocano il dolore giustificando la classificazione della Figura 1.

Figura 1 

La classificazione patogenetica del dolore [Orlandini 2014]

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Alcune osservazioni però suggeriscono l’opportunità di aggiungere dei tasselli a queste conoscenze che possono essere considerate punti fermi nella fisiopatologia del dolore: mi riferisco al ruolo del NGF e dei canali del sodio Nav1.7 per quel che riguarda la loro importanza nel determinare la soglia del dolore, sia per spiegare il manifestarsi o meno del dolore in presenza della stessa lesione algogena, sia per spiegare la sua diversa intensità in pazienti diversi con patologie apparentemente uguali e sia infine in relazione alla produzione di alcune patologie che sono sempre state ambiguamente considerate di origine sconosciuta o incerta come l’Emicrania, il Dolore dell’arto fantasma e molte altre.
E’ possibile che per poter essere davvero causa di dolore o quanto meno per provocare un dolore più o meno severo, i classici meccanismi patogenetici del dolore richiedano un particolare substrato biologico a livello molecolare che determina il valore della soglia di percezione del dolore (Figura 2), verosimilmente governata dalla (ridotta o aumentata) funzione del NGF e soprattutto dei canali del sodio Nav1.7…e forse di molti altri fattori come il coinvolgimento dei TRP-channels, l’attivazione più o meno rilevante della microglia nel corno dorsale del midollo spinale [Wilkerson e Milligan 2011], l’attivazione dei Cav3.2-T-type [Hildebrand et al.2011] e verosimilmente molti altri dei quali ignoriamo persino l’esistenza.

Figura 2 

Rappresentazione grafica per distinguere diverse possibili risposte allo stesso stimolo nocicettivo o alla stessa patologia: i valori numerici sono arbitrariamente assegnati al solo scopo comunicativo. Definendo grossolanamente “sensibilità al dolore” ciò che determina la differente risposta soggettiva allo stesso stimolo nocicettivo, possiamo immaginare che vi siano pazienti con una sensibilità “normale” (per cui avvertono il dolore in presenza di uno stimolo nocicettivo o di patologie di una certa importanza), altri che presentano una sensibilità ridotta (per cui lo stimolo nocicettivo è avvertito di meno ed avvertono poco dolore anche in presenza di una patologia di una certa importanza), altri che presentano una sensibilità eccessivamente ridotta (per cui lo stimolo nocicettivo è avvertito pochissimo o per nulla e non avvertono dolore neppure in presenza di una patologia importante, con grave pericolo per la sopravvivenza) ed altri, infine, che presentano una sensibilità aumentata o molto aumentata (per cui lo stimolo nocicettivo è avvertito di più ed avvertono molto dolore anche in presenza di una patologia di scarsa rilevanza o addirittura senza nessuna patologia: questi sono pazienti candidati alla cronicizzazione del dolore)

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Questa disfunzione (canalopatia) potrebbe spiegare perché lo stesso danno anatomico a carico dei nervi periferici provoca il dolore in alcuni soggetti e non in altri ed essere alla base di patologie dolorose come il Dolore neuropatico da patologia delle piccole fibre, la Sindrome della bocca che brucia, la Neuropatia trigeminale dovuta ad un danno nervoso periferico (a produrre il quale basta una semplice estrazione dentale) che per lo più passa clinicicamente inosservato ma in qualche caso è responsabile di una grave sintomatologia dolorosa, l’Emicrania (dove l’unico dato anatomico riscontrabile e classicamente considerato causa del dolore è una vasodilatazione intracranica del tutto innocua nella maggior parte delle persone ma fonte di dolore negli emicranici), la Cefalea muscolotensiva (dove si ha soltanto il riscontro anatomico di una prolungata contrazione dei muscoli epicranici), il Dolore dell’arto fantasma, la Fibromialgia (che non è altro che la somma di una serie di danni tessutali anche relativamente modesti), la Sindrome del colon irritabile (tipicamente senza una chiara basa organica), la “Sindrome dell’ipersensibililità rettale idiopatica e del dolore parossistico estremo” e, per finire, situazioni comuni come lo Stato del paziente incline al dolore e il Dolore da malattia degenerativa sistemica dell’anziano [Orlandini 2022]
Verosimilmente, il danno anatomico di una certa entità (per esempio, una frattura ossea), con lo scopo di proteggere l’organismo attiva in ogni caso il segnale nocicettivo e produce il dolore ma quest’emozione può essere più o meno intensa a seconda dell’entità del messaggio nocicettivo che a sua volta dipende dalla quantità di recettori e fibre sensitive coinvolte e, a ritroso, dalla quantità di canali del sodio Nav1.7 attivabili (vale a dire dalla soglia del dolore).
Questo non signfica che non si debba indagare sui meccanismi patogenetici del dolore per scegliere la terapia adeguata per contrastarli [Orlandini 2020] ma quanto la cura sarà efficace potrebbe dipendere dalla soglia del dolore per cui sarebbe opportuno agire sia sul meccanismo di produzione della nocicezione (o della disnocicezione nel caso del dolore neuropatico) ma al tempo stesso cercare anche di elevare la soglia del dolore (specie se questa è particolarmente bassa). Purtroppo, non disponiamo al momento di mezzi per elevare la soglia del dolore contrastando i canali del sodio Nav1.7 e il NGF e neppure per misurarla! A questo scopo, potrebbe servire il dosaggio nel siero della proteina a forcella Foxol 1 che aumenta il numero dei canali del sodio Na1.7 [Long Zhang et al.2021] ma, in ogni caso, si tratta di un marker biologico indiretto e di incerta utilità perché riguarda solo il dosaggio di qualcosa che aumenta i canali del sodio Nav1.7. In altre parole, ad oggi non possiamo sapere quanto dell’emozione dolore dipende dall’entità della nocicezione o della disnocicezione sulla base di un determinato substrato anatomico e quindi fisico e quanto dipende dalla modalità individuale, psicologica, con cui la nocicezione o la disnocicezione vengono elaborate in emozione dolore.
Negli ultimi 20 anni e soprattutto negli ultimi 5 sono stati individuati o per lo meno presi in più seria considerazione i nuovi interessanti targer terapeutici per il trattamento del dolore rappresentati dai già menzionati canali Nav1.7, nonché dal NGF e secondo altri [Chen et.al.2021] anche dai canali del sodio Nav1.8, dai TRPV1, dall’ossido nitrico, dalle prostaglandine E e dall’interleuchina-6. Ad oggi, tra questi ipotetici farmaci in Italia è disponibile (e solo per la medicina veterinaria) un prodotto che si chiama bendinvetmab e che dovrebbe essere analogo al tanezumab (prodotto dalla Zoetis Italia con il nome commerciale di Librala e disponibile in fiale per uso sottocutaneo da 5-10-15-20-30 mg da sommniistrare alla dose di 0,5-1 mg/Kg/4 settimane).
Probabilmente non mancherà un certo ostruzionismo nei confronti dei farmaci che contrastano i canali del sodio Nav1.7 e il NGF che possiamo chiamare “farmaci per elevare la soglia del dolore” o (per usare una sigla com’è oggi tanto di moda) “FESD”, sia perché potrebbero essere considerati concorrenziali nei confronti dei FANS e degli oppiacei e sia perché non si può escludere a priori una certa loro “pericolosità” se, come potrebbe accadere, fossero impiegati indiscriminatamente. Infatti, un farmaco che “fa sentire meno il dolore” potrebbe essere una panacea che mette in secondo piano la necessità di indagare sulla patogenesi del dolore e valutare quali sono le scelte terapeutiche più appropriate e nelle mani del crescente numero di persone che nel dilagante trionfo della mediocrità considerano inutilmente faticoso pensare e correlare i concetti quando questi possono essere schematizzati in brevi e spesso fuorvianti riassunti facilmente reperibili “in rete”, potrebbe diventare un’arma addirittura pericolosa inducendo persino a trascurare anche la terapia causale. A questo punto, potrebbe tornare in auge (se mai ha smesso di esserlo) la scaletta terapeutica a tre gradini dell’OMS e qualsiasi operatore sanitario indipendentmente dalla sua preparazione (se non il paziente stesso “educato” dalla dilagante pubblicità televisiva dei presidi sanitari) potrebbe gestire il dolore.  

Contrasto dei canali del sodio Nav1.7

Gli attuali farmaci antidepolarizzanti che agisono sui canali del sodio (anestetici locali, carbamazepina ed altri antiepilettici) bloccano tutti i tipi di canale del sodio mentre quelli realmente implicati nell’attivazione del PTA nei nocicettori ad opera degli stimoli nocicettivi sono solo i canali del sodio Nav1.7 e forse i Nav1.8 e i Nav1.9 [Nassar et al.2004, Strickland et al.2008, Kanellopoulos e Matsuyama 2016, Foadi 2018]. Tra gli altri canali del sodio, il Nav1.1, il Nav1.2 e il Nav1.6 sono coinvolti nella neurotrasmissione nel SNC e con la loro iperfunzione nella produzione dell’epilessia, i Nav1.4 sono coinvolti nella contrattilità muscolare e i Nav1.5 nell’attività cardiaca [Abdel-Magid 2015].
Coinvolgendo tutti i tipi di canali del sodio, gli attuali antidepolarizzanti che agiscono sui canali del sodio possono essere utili come “analgesici” nel dolore tessutale solo con la somministrazione locale (anestetici locali) e per via sistemica nelle situazioni dove si ha una eccessiva proliferazione di canali del sodio come nei tratti demielinizzati delle fibre Aβ responsabili del dolore da demielinizzzazione della nevralgia del trigemino e forse della “Sindrome dell’ipersensibililità rettale idiopatica e del dolore parossistico estremo”. Quasi solo per soddisfare la curiosità, ricordo che quest’ultima è una rara patologia pediatrica descritta nel 1959 e caratterizzata dal bisogno urgente di defecare, dall’incontinenza e da dolore rettale parossistico che se si prolunga nell’età aduta comporta un dolore avvertito in sede perirettale, perioculare e perimandibolare spesso scatenato dalla defecazione e dalla stimolazione della parte inferiore del corpo. E’ “una condizione inspiegabile e difficile da trattare” scrivevano Yiangou e Coll. nel 2007, ipotizzando il coinvolgimento patogenetico dei canali del sodio Nav1.7 che poi fu confermato da Dib-Hajj et al. [2008] e da Imai et al. [2015]. Notare che, almeno in parte, questo disturbo risponde alla carbamazepina [Choi et al.2011]: questo, da una parte non stupisce perché la carbamazepina agisce bloccando l’ingresso del sodio attraverso i suoi canali e impedendo la depolarizzazione del neurone ma dall’alta stupisce perché mentre è efficace nella nevralgia del trigemino la carbamazepina alle normali dosi terapeutiche è inefficace nel dolore tessutale dove pure, i nocicettori sono attivati dall’ingresso del sodio nella cellula. Sotto questo punto di vista, nonostante qualche entusiasmo, nulla è stato aggiunto per lo meno per quanto riguarda il trattamento del dolore dall’avvento della lacosamide [Hao et al.2006, Stöhr et al.2006, Beyreuther et al.2007, Biton 2008, Harris e Murphy 2009, McCleane 2010, Hearn et al.2012, Masrour 2022, Alcántara Montero 2022].
In realtà, nel dolore tessutale, con la somministrazione sistemica il raggiungimento di una sufficiente concentrazione di questi farmaci in prossimità dei nocicettori richiederebbe dosi inaccettabili dal punto di vista degli effetti collaterali dovuti al coinvolgimento dei canali del sodio presenti negli altri tessuti (specie nel cuore) ed essa è possibile, come s’è già detto, solo nelle situazioni dove si ha una eccessiva proliferazione di canali del sodio. Per questo, i farmaci in grado di contrastare selettivamente i canali del sodio Nav1.7 potrebbero essere realmente una rivoluzionaria terapia del dolore evitando gli effetti collaterali e diventare una valida alternativa non (come verrebbe da pensare) ai FANS perché non esercitano l’effetto anti-infiammatorio ma agli altri analgesici (compresi gli oppiacei) e agli antiepilettici usati oltre che la cura dell’epilessia anche come terapia di alcuni dolori neuropatici.
Il ruolo chiave che canali del sodio Nav1.7 svolgono nella produzione del dolore è provato dall’esistenza dell’analgesia congenita che si ritiene dovuta all’ipofunzione di questi canali [Goldberg et al.2007, King e Vetter 2014, Hoffmann et al.2018, Shields et al. 1018] e dall’aumento o dalla riduzione del dolore provocato dai prodotti chimici che sperimentalmente ne aumentano o riducono la funzione.
Va osservato che verosimilmente la ridotta funzione dei canali del sodio Nav1.7 oltre a ridurre il dolore provoca anche l’iperfunzione (probabilmente compensatoria) del sistema oppioide endogeno dato che il naloxone riduce l’analgesia provocata dalla perdita della loro funzione [Emery et al.2016]. Ribadirono questo concetto, Muller e Coll. [2019] confermando l’effetto analgesico e antiallodinico dell’inibitore selettivo dei Nav1.7 Pn3a e osservando che, se somministrato assieme al naloxone, si annulla l’effetto analgesico. Gli stessi Autori riscontrarono inoltre che il potenziamento dell’effetto analgesico del Pn3a si avrebbe oltre che con la contemporanea somministrazione di oppiacei anche con la contemporanea somministrazione degli agonisti dei GABA-B recettori (Baclofene) e conclusero che il Pn3a (se mai fosse un farmaco) andrebbe somministrato assieme ad un oppiaceo e al baclofene.
Per quanto riguarda la loro collocazione anatomica, i canali del sodio Nav1.7 si troverebbero, oltre che nella porzione recettoriale del primo neurone sensitivo (assieme ai canali del sodio denominati Nad) inducendo la produzione del PTA, anche lungo l’assone contribuendo alla sua propagazione [Hoffmann et al.2018] e secondo alcuni [Estacion et al.2011, Hoeijmakers et al.2012, Doppler e Sommer 2013, Blass 2018] anche e forse soprattutto nei gangli della radice dorsale, nei gangli dei nervi cranici e nei gangli simpatici. Mentre è chiaro il ruolo dei Nav1.7 a livello dei nocicettori (dove producono la depolarizzazione con l’ingresso del sodio nella cellula nervosa attraverso i rispettivi canali), nel decorso della fibra nervosa (dove nel dolore tessutale consentono la propagazione della depolarizzazione fino al terminale centrale del primo neurone, nel dolore da danno assonale promuovono la depolarizzazione nei neorecettori del neuroma con l’ingresso del sodio attraverso i loro canali ionici e nel del dolore neuropatico da demielinizzazione promuovono la depolarizzazione dell’assone con l’ingresso del sodio attraverso i canali ionici neoformati dei tratti demielinizzati della fibra) e delle sinapsi (dove promuovono la depolarizzazione del secondo neurone con l’ingresso del sodio attraverso i canali ionici della membrana post-sinaptica e quindi il trasferimento ad esso del messaggio nocicettivo) non lo è (mi sembra) quello che dovrebbero avere nei gangli spinali e cranici. In realtà, i gangli simpatici contengono la sinapsi fra il neurone pre- e quello post-gangliare, ma gangli spinali e cranici contengono solo i pirenofori da cui originano i fattori trofici e non mi sembra che si abbia in essi un’attività elettrica dove possano essere coinvolti i canali del sodio. 

Ruolo dei canali del sodio Nav1.7 nel dolore nocicettivo

L’importanza dei canali del sodio Nav1.7 nella produzione del dolore nocicettivo (Figure 3 e 4) è dimostrata dalle osservazioni di Cai e Coll.[2016] che sostennero che il loro blocco con lo shRNA attenua il dolore da ustione nel ratto e di Kwon e coll [2021] che dimostrarono che i canali del sodio Nav1.7 aumentano a seguito della provocazione della pulpite infiammatoria.
Stranamente, fa eccezione alla regola dell’aumento dei canali del sodio Nav1.7 nel dolore nocicettivo il dolore osseo da cancro [Minett et al.2014].  

Figura 3 

Attivazione dei nocicettori e conduzione assonale dello stimolo nocicettiv nelle fibre C amieliniche (A) e nelle fibre fibra β mieliniche (B)

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Figura 4 

Trasferimento sinaptico del PTA dal primo al secondo neurone

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Ruolo dei canali del sodio Nav1.7 nel dolore neuropatico

Il ruolo dei canali del sodio Nav1.7 nel dolore neuropatico era già stato segnalato con l’osservazione che una mutazione genetica che aumenta l’attività di questi canali sarebbe responsabile dell’Eritromelalgia [Fischer e Waxman 2010], dal riscontro che essi aumentano nel danno nervoso [Liu et al.2012] contribuendo alla sua produzione e che il sulfide di idrogeno che ne aumenta l’attività aggrava il dolore neuropatico [Tian et al. 2220].

Dolore neuropatico da persistente ipereccitabilità di nocicettori e da danno delle piccole fibre
Dal canto loro Estacion e Coll.[2011] sostennero che l’iperfunzione dei canali del sodio Nav1.7 sarebbe responsabile oltre che dell’Eritromelalgia ereditaria (caratterizzata da dolore urente avvertito alle estremità distali scatenato dal calore e alleviato dal freddo), anche della Sindrome dell’ipersensibililità rettale idiopatica e del dolore parossistico estremo e del Dolore neuropatico da danno delle piccole fibre. A questo proposito, gli stessi Autori segnalarono che l’aumento della funzione dei canali del sodio Nav1.7 è presente in circa il 30% dei pazienti con biopsia positiva per patologia delle piccole fibre e questo fu confermato in seguito da Doppler e Sommer [2013] e da Blass [2018].

Dolore nella CRPS-I
Quasi incomprensibile è l’osservazione che i canali del sodio Nav1.7 non sono implicati nella CRPS-I [De Rooij et al.2010]. Quest’affermazione che per quel che ho potuto verificare non trova conferme nella letteratura è alquanto strana se consideriamo come primum movens della CRPS-I l’ipereccitabilità dei nocicettori che implica un ruolo preminente dell’iperfunzione dei Nav1.7.

Dolore neuropatico da neuropatia assonale
Fin qui si è fatto riferimento solo al dolore neuropatico nell’Eritromelalgia e a quello da danno delle piccole fibre [Themistocleous et al.2014] dove sono implicati i nocicettori e verosimilmente le fibre C e dove l’iperfunzione dei canali del sodio Nav17 gioca un ruolo evidente ma se consideriamo gli altri tipi di dolore neuropatico questo ruolo sembra meno chiaro.
A questo proposito, consideriamo il riscontro che nel topo il dolore prodotto dalla costrizione del nervo è abolito dalla soprressione della funzione dei canali del sodio Nav1.7 nei neuroni sensitivi mentre quello prodotto dalla transezione del nervo richiede la soppressione della funzione dei canali del sodio Nav1.7 oltre che nei neuroni sensitivi anche nei nervi simpatici [Minett et al.2012]. Considerato che il dolore prodotto dalla costrizione del nervo potrebbe essere di tipo nerve trunk pain (quindi nocicettivo) mentre quello da transezione del nervo è da neuropatia assonale, si potrebbe pensare che l’allodinia meccanica e termica al freddo (Aβ-mediata) tipica del dolore da neuropatia assonale non dipenda dall’attivita dei canali del sodio Nav1.7: d’altra parte nella neuropatia assonale l’allodinia è dovuta all’attivazione del secondo neurone da parte delle fibre Aβ e non dalle mancanti fibre C. Considerando questi dati, si potrebbe concludere che i canali del sodio Nav1.7 sono operanti nelle fibre C e non nelle Aβ. Il fatto che il dolore prodotto dalla transezione del nervo richieda la soppressione della funzione dei canali del sodio Nav1.7 nei nervi simpatici si potrebbe spiegare ipotizzando una compartecione del simpatico nella produzione del dolore da neuropatia assonale come si ha nella causalgia. In definitiva, queste considerazioni farebbero concludere che gli ipotetici farmaci che bloccano la funzione dei canali del sodio Nav1.7 (attivi nel dolore neuropatico da ipereccitabilità dei nocicettori e in quello da patologia delle piccole fibre) non dovrebbero essere efficaci nel dolore da neuropatia assonale mentre potrebbero esserlo nella causalgia. La tesi che l’allodinia meccanica dinamica Aβ-mediata non dipenda dall’attività dei canali del sodio Nav1.7 fu in seguito confermata da altri [Shields et al. 1018] ma a mio parere non è affatto convincente.
Nel dolore neuropatico da neuropatia assonale, i Nav1.7 giocano un ruolo importante nel produrre la depolarizzazione nei neonocicettori del neuroma e nel produrre la depolarizzazione del secondo neurone con l’ingresso del sodio attraverso i canali ionici della membrana post-sinaptica trasferendo ad esso il messaggio condotto dalle fibre Aβ proliferate in sostituzione delle fibre C a seguito del rimaneggiamento morfofunzionale della DREZ. D’altra parte, pensare che come si è detto prima questi recettori non siano presenti nelle fibre mieliniche non credo sia corretto perché un loro ruolo sembra essere fondamentale nel dolore da demielinizzazione che ovviamente riguarda le fibre Aβ.

Dolore neuropatico da demielinizzazione
A proposito del ruolo dei canali del sodio Nav1.7 nel dolore da demielinizzazione, le uniche segnalazioni che ho trovato concernono un caso clinico segnalato da Harrer e Coll. [2014] che evidenziarono una variante dei canali del sodio Nav1.7 potenzialmente implicata in questo tipo di dolore neuropatico e la sconcertante segnalazione di Ferriera Costa e Coll [2019] che sostengono che non v’è alcuna correlazione tra la nevralgia del rigemino e le anomalie del funzionamento dei Nav1.7 o del NGF. Nonostante quest’ultima osservazione, se consideriamo che il dolore da demielinizzazione dipende dall’incorporazione compensatoria di neoformati canali del sodio nei tratti di fibre Aβ demielinizzati e quindi dal loro incremento numerico che giustifica l’efficacia dei farmaci genericamente inibitori dei canali del sodio come gli anestetici locali, la carbamazepina e la lamotrigina, verrebbe da pensare che i canali del sodio Nav1.7 siano tuttaltro che estranei nella patogenesi di questo tipo di dolore neuropatico e che i loro inibitori selettivi rivestano una grande importanza terapeutica.

Dolore neuropatico da deafferentazione e dolore centrale
Il dolore da deafferentazione provocato dalla lesione nervosa prossimale al ganglio della radice dorsale è dovuto all’ipereccitabilità da deafferebtazione del secondo neurone ed alla conseguente sua scarica epilettiforme spontanea: è difficile immaginare in questa attivazione (depolarizzazione) spontanea non siano coinvolti i canali del sodio e lo stesso vale per il dolore centrale.

Dolore nella CRPS-1
Infine, quasi incomprensibile è l’osservazione che i canali del sodio Nav1.7 non sembrano essere implicati nella CRPS [De Rooij et al.2010]. Questa osservazione che per quel che ho potuto verificare non trova conferme nella letteratura è alquanto strana se consideriamo come primum movens della CRPS-1 l’ipereccitabilità dei nocicettori. Infatti, accettando questa ipotesi patogenetica, è difficile non ipotizzare un ruolo preminente nell’iperfunzione dei Nav1.7.

Bloccanti dei canali del sodio Nav1.7

Vediamo ora lo scoraggiante elenco delle “sostanze” chimiche che sono state utilizzate nel laboratori di ricerca per contrastare i canali del sodio Nav1.7:
1. Il Benzazepinone come ininibore dei Nav1.7 [Hoyt et al. 2007].
2. La Diaminotriazina. Bregman e Coll. [2011] hanno riconosciuto in un tipo di diaminotriazina un potente inibitore di un sottotipo dei canali del sodio Nav1.7 identificato come hNav1.7, diverso da quello che è attaccato dagli anestetici locali: questo composto è somministrabile per via orale nel ratto e produce un effetto dose dipendente.
3. Lo Spiroxidolo XEN907 [Chowdhury et.al.2011].
4. La pyrrolo-benzo-1,4-diazina come inibitore dei Nav1.7 [Ho G.D. et al.2014]
5. L’indazolo [Frost et al.2016].
6. Lo shRNA [Cai et al.2016].
7. Lo JNJ63955918. Sul presupposto che l’inibizione dei canali del sodio Nav1.7 sia responsabile dell’insensibilità al dolore, partendo dal peptide OroTX-II del veleno della tarantola, Flinspach e Coll. [2017] estrassero un composto denominato JNJ63955918 in grado di indurre farmacologicamente l’insensibilità al dolore.
8. la Clorpromazina. Lee e Cll.[2017] evidenziarono da un loro studio che la clorpromazina blocca i canali del sodio hNav1.7: in realtà, però, non ho trovato nella letteratura nessuna altra segnalazione al riguardo.
9. La Jingzhaotoxin-34 (JZTX-34). Zeng e Coll. [2018] sostennero che in condizioni sperimentali il JZTX-34 che è un bloccante selettivo dei canali del sodio Nav1.7, alla dose di 2 mg/Kk ha la stessa efficacia antalgica di 5 mg/Kg di morfina.
10. Lo rSVmab [Sangsu Bang et al. 2018].
11. Acylsulfonamide [Focken et al.2016, Blass 2018, Shields et al. 1018, Safina et al. 2021].
12. Il μ-theraphotoxin-Pn3a [Mueller et al. 2019].
13. Il DA-0218 (l’inpronunciabile: 9 (3-(1-benzyl-1H-indol-3-yl)-3-(3-phenoxyphenyl)-N-(2-(pyrrolidin-1-yl)ethyl)propanamide) [Chandra et al.2020].
14. La Cytosolic collapsin response mediator protein (CRPM) che sarebbe un regolatore dei canali del sodio Nav1.7 efficace nel dolore neuropatico “cronico” ma non in quello “fisiologico” (sic) [Moutal et al.2020, Li et al.2022].
15. Il ProTxII [Abdel-Magid 2015, Kwon et al.2021].
16. La Propanamide [Niu et al.2021].
17. Il Il-10. Questo prodotto, come inibitore dei canali del sodio Nav1.7 ridurrebbe il dolore radicolare nel ratto [Huang et al.2022].
18. La Tetrodotoxina [Salas et al.2015, Mattei 2028].
19. L’inibitore dei Nav1.7 derivato della ralfinamide e chiamato QLS-81 [Niu 2021]
20. L’amitriptilina per applicazione topica come potente inibitore dei canali del sodio Nav1.7, Nav1.8 e Nav1.9 [Genevois et al.2021].
21. Il ST-2530 analogo dell’inibitore naturale dei canali del sodio noto come saxitoxina [Beckley et al.2021].
22. Per aggiungere una nota di folclore, è stata preso in considerazione anche l’Allium macrostemon Bunge che è un’erba commestibile impiegata dalla medicina tradizionale cinese per curare il dolore, perché secondo uno studio essa bloccherebbe i canali del sodio Nav1.7 [Yang et al.2021].

Si può sperare che in un futuro non lontano qualcuna di queste sostanze chiniche diventi un vero farmaco utilizzabile nella pratica clinica, perché il controllo dei canali del sodio Nav1.7 potrebbe essere la soluzione terapeutica in molte patologie per le quali attualmente non si dispone di una cura efficace. Se il problema è la bassa soglia del dolore, un farmaco per elevarla potrebbe essere la soluzione ma, in ogni caso, non vedo il suo impiego come sostituto degli attuali analgesici (soprattutto dei FANS): esso va considerato un trattamento mirato solo quando il problema è la ridotta soglia del dolore e come un presidio integrativo nelle altre situazioni.
Come curiosità va segnalato che rispetto al genoma dell’uomo moderno, nei neandertaliani vi sarebbero state tre varianti nella proteina che codifica i Nav1.7 in grado di determinare una loro ridotta inattivazione per cui i nervi periferici sarebbero stati più sensibili agli stimoli nocicettivo: in altre parole, i neandertaliani sentivano più dolore degli uomini moderni e le suddette varianti sarebbero presenti nel 4/1000 degli attuali britannici [Zeberg et al.2020]. Da malpensanti, viene da considerare che se è vero che i neandertaliani percepivano il dolore più degli uomini moderni può essere messa indicussione la funzione protettiva del dolore perché i neandertaliani che sentivano pù dolore si sono estinti e l’uomo moderno che sente meno dolore è sopravvissuto! 

Contrasto del NGF

Scoperto negli anni '50 dalla ricercatrice italiana Rita Levi-Montalcini che grazie ad esso ottenne il premio Nobel, il NGF è una proteina che regola la crescita dei neuroni sensiviti e simpatici durante lo sviluppo ed agisce legandosi ad uno specifico recettore che è la tropomiosina-kinasi (TrK) presente nel ganglio della radice dorsale e (verosimilmente) in tutte le fibre nervose sensitive.
Dapprima si sperò che il NGF potesse esercitare funzioni neurotrofiche utili alla rigenerazione nervosa ma con questa finalità non ebbe successo. Quasi per ironia della sorte, in seguito, osservato che il NGF aumenta nella flogosi perché liberato dai mastociti, dai macrofagi e dai linfociti, fu ipotizzato che, per il suo potere neurotrofico, possa contribuire alla produzione dell’iperalgesia e dell’allodinia nei tessuti sede di flogosi tramite la sensibilizzazione dei nocicettori. Fu quindi considerato un potenziare responsabile del persistere del dolore e (ovviamente) della sua “cronicizzazione” [Patel et al.2018]. Su questa linea di pensiero fu preparato un anticorpo monoclonale (IgG) diretto a contrastare l’effetto del NGF: il tanezumab che agisce bloccando il legame del NGF con il suo recettore TrK. Quel che si mira ad attuare con il tanezumab è la riduzione dell’eccitabilità dei nocicettori, cioè quel che fino ad ora si era ottenuto con i FANS ma con un’auspicata minore tossicità e con la differenza che i FANS agiscono solo quando l’eccitabilità dei nociettori è aumentata dalle prostaglandine e non quando dipende, per esempio, dall’infiammazione neurogena che sostiene il dolore neuroaptico da persistente ipereccitabilità dei nocicettori. Quindi il tanezumab dovrebbe trovare indicazione nel dolore tessutale persistente, nel dolore neuropatico da persistente ipereccitabilità dei nocicettori e nella CRPS-I.
Va però considerato che la riduzione dell’eccitabilità dei nocicettori è ottenuta dal tanezumab in virtù dell’antagonismo del NGF e quindi di un effetto neurotossico: considerato ciò, dobbiamo chiederci se realmente il danno nervoso che intendiamo produrre con il tanezumab possa essere selettivamente limitato ai nocicettori senza, come si può temere, coinvolgere gli assoni o i pirenofori. Forse è possibile che il dosaggio del tanezumab possa essere esattamente calibrato per ottenere questa selettività ma non si può prescindere dal dubbio che ciò sia realmente possibile.
E’ evidente che un farmaco con queste caratteristiche può avere grandi potenzialità terapeutiche in molte situazioni cliniche che concernono il dolore tessutale (dove può essere un’alternativa ai FANS) e alcuni dolori neuropatici. Individuata la sua potenzialità come analgesico, la sperimentazione pre-clinica del tanezumab iniziò nei primi anni 2000 per il controllo del dolore collegato all’osteoartrosi (specie dell’anca e del ginocchio) e sospesa temporaneamente nel 2010 per la segnalata comparsa di osteonecrosi nei soggetti trattati. La “sfortuna” del tanezumab non finisce qui perché ripresa in utto il mondo la sperimentazione, nel 2021 la Pfizer Europe mise a punto una preparazione di tanezumab con il nome commerciale Raylumis che però non sarà disponibile per l’uso clinico perchè il 16 settembre 2021 l’Agenzia europea per i medicinali ne raccomandò il rifiuto dell’autorizzazione all’immissione in commercio!
Notare che come effetti collaterali del tanezumab sono segnalati l’osteonecrosi, le parestesie e la “neuropatia periferica” che paradossalmente sono le sue stesse indicazioni terapeutiche. Per quanto riguarda l’osteonecrosi, si può pensare che l’abolizione del dolore consenta un uso eccessivo dell’articolazione coinvolta nell’osteoartrosi. Forse i FANS non producono osteonecrosi perché non tolgono abbastanza il dolore mentre il tanezumab la produce perché è più efficace. Questo, da un lato, conferma la sua efficacia antalgica e, dall’altro, per lo strettissimo range terapeutico, implica la necessità non solo di un adeguato dosaggio ma anche e soprattutto l’assoluta necessità di un suo uso “controllato”. In altre parole, si deve valutare quando e in quale misura “conviene” davvero ridurre il trofismo del nervo. Si tenga presente che secondo uno studio [Belanger et al.2017], per lo meno nelle scimmie, sembra che anche ad alte dosi il tanezumab non abbia effetti neurotossici se somministrato ad intervalli di 8 settimane per 6 mesi ma, nonostante questi promettenti riscontri, non sappiamo ancora per quanto tempo e in quali dosi possa essere somministrato nell’uomo con un accettabile margine di sicurezza.
E’ possibile che il tanezumab dia vita ad una nuova generazione di analgesici [Brown et al.2014, Nair 2018] ma, anche grazie alla sua praticità di impiego, considerato che può essere somministrato per via sottocutanea ed ha una lunga emivita plasmatica (circa 3 settimane), è facile immaginare che, presi dall’entusiamo, si finisca per utilizzarlo per ogni tipo di dolore acuto e, soprattutto “cronico”. Già da ora è stato proposto oltre che per la cura del dolore da coxartrosi alla dose di 2,5-10 mg/8 settimane [Birbara et al.2018, Ekman et al.2014] e del dolore da metastasi ossee [Sopata et al.2015] anche nel low back pain [Jayabalan e Schnitzer 2017, Webb et al.2018] e nella nevralgia post-herpetica [Bramson et al.2015].
In conclusione, si deve sperare che il tanezumab, da un lato, non sia uno dei soliti prodotti tanto “sicuri” e “innoqui” quanto utili solo dal punto di vista commerciale e, dall’altro, che sia realmente efficace e sufficientemente gestibile nella pratica clinica.
Questo 2 anni fa [Orlandini 2020] e da allora sono comparsi numerosissimi altri studi sul tanezumab che però non hanno portato a conclusioni definitive.
Per quel che riguarda le indicazioni, non si è più parlato della neuropatia periferica e della nevralgia post-herpetica e sono considerare esclusivamente l’osteoartrosi dell’anca e del ginocchio e in qualche caso un non meglio precisato dolore lombare cronico [Markman et al.2020, Hhoji et al.2022, Konno et al.2022].
Problemi non ancora completamente risolti riguardano la via di somministrazione e il dosaggio del tanezum. Per quel che riguarda il primo punto, la maggior parte degli studi propone la somministrazione sottocutanea ad un dosaggio variabile da 2,5 a 10 mg ogni 8 settimane [Birbara al.2018]. Per il dosaggio, in un primo tempo, Schnitzer et al. [2018] proposero la somministrazione di 2,5 mg la prima volta e di 5 mg dopo 8 settimane ma in una pubblicazione successiva fecero osservare che l’effetto antalgico con il dosaggio di 5 mg era appena di poco superiore a quello ottenuto con 2,5 mg [Schnitzer et al.2020]. Altri, per contro, proposero 5-10 mg sottocute ogni 8 settimane [Markman et al.2020] e Song e Lee [2021] sostennero che il dosaggio ottimale è di 5 mg/8 settimane.
In alternativa a quella sottocutanea e secondo loro preferibile ad essa, alcuni Autori proposero la sommistrazione endovenosa del tanezumab. Walicke et al. [2018] proposero per il trattamento del dolore da osteoartrosi del ginocchio la somministrazione endovenosa di 0,7 mg/Kg di peso corporeo e secondo Cai et al. [2021] i risultati migliori con il tanezumab si otterrebbero con 10 mg endovena ed i peggiori con 2,5 mg sottocute. Secondo Markman et al. [2022] per il trattamento del dolore lombare cronico il tanezumab andrebbe somministrato per via venosa alla dose di 2,5 o addirittura di 20 mg/8 settimane (nella loro esperienza la cura si protrasse per 56 settimane).
Va osservato che, indipendentemente dalla via di somministrazione, tutti gli Autori sono concordi nell’intervallo di 8 settimane fra le somministrazioni di tanezumab (…quindi o il farmaco ha un’emivita lunghissima o la preparazione è retard?).
Praticamente tutti sono concordi sull’efficacia antalgica del tanezumab che darebbe ottimi risultati antalgici già nella prima settimana di trattamento [Berenbaum et al.2021]. Paradossalmente, sembrerebbe che l’efficacia sia persino eccessiva dato che quasi tutti segnalano la possilibilità di un aggravamento del danno articolare nei pazienti con osteoartrosi dell’anca o del ginocchio [Schnitzer et al.2018, Berenbaum et al.2020, Markman et al.2020, Yu el al.2021, Miki et al.2022] anche se secondo la rassicurante osservazione di Zhang et al. [2021] questi danni si avrebbero soltanto in un limitato numero di casi. Dello stesso parere sono Berenbaum et al.[2022] quando sostengono che le parestesie sono frequenti ma l’aggravamento dell’osteoartrosi è infrequente alla dose (consigliata) di 2,5 mg/8 settimane (per lo meno nelle prime 24 settimane). Infine [Brwun et al.2022]. sostengono che alla dose di 2,5-5 mg/8 settimane il tanezumab può essere responsabile di “anormali sensazioni periferiche” ma non di neuropatie periferiche né di alterazioni del simpatico. In definitiva, a parte l’aggravamento dell’osteoartrosi, gli altri effetti collaterali sarebbero minimi [Fan et al.2021], consistendo in quelle che in vari studi vengono fumosamente definite “anomale sensazioni periferiche” e che credo vadano intese come parestesie.
Quasi come curiosità, va segalata la segnalazione di Konno et al. [2022] che sostengono che nel “dolore lombare cronico” gli effetti avversi (le solite “anormali sensazioni periferiche”) riguarderebbero il 63% dei pazienti cui viene somministrato tanezumab alla dose di 5 mg e il 54% di quelli cui venono somministrati 10 mg ed anche i danni articolari arebbero maggiori in quelli che ricevono 5 mg rispetto a quelli che ne ricevono 10. 

Contrasto del CGRP (galcanezumab)

Un argomento a se stante (se non addirittura fuori tema) rispetto a quello che riguarda gli ipotetici FESD di cui ho parlato prima concerne l’impiego degli anticocorpi monocolonali galcanezumab (commercializzato come Emgality in fiale da 120 mg), fremanezumab (commercializzato come Ajovy) ed Erenumab (commercializzato come Aimovig) che sono diretti a contrastare il CGRP e quindi, seguendo lo schema tradizionale dei farmaci antiemicranici, a contrastare la vasodilatazione intracranica.
Il contrasto del CGRP è stato proposto e realizzato per il controllo dell’Emicrania e della Cefalea a grappolo. In realtà, mentre per quanto riguarda l’Emicrania il meccanismo d’azione è meno chiaro, per quel che riguarda la Cefalea a grappolo (che è la più rara ma anche la più invalidante delle cefalee) il meccanismo d’azione è più chiaro se si ipotizza che essa sia sostenuta dall’attivazione del parasimpatico craniale da parte delle afferenze trigeminali con evocazione di un riflesso trigemino-parasimpatico e conseguente liberazione del CGRP che, a sua volta, sarebbe corresponsabile assieme all’iperattività parasimpatica della vasodilatazione intracranica, del dolore e dei sintomi autonomici di accompagnamento.
Dato che il CGRP è un potente vasodilatatore, il galcanezumab che ne antagonizza l’effetto dovrebbe agire come vasocostrittore e quindi ridurre la vasodilatazione intracranica che è considerata causa del dolore sia nell’Emicrania che nella Cefalea a grappolo. In questo caso non è in causa il contrasto dei canali del sodio Nav1.7 e quindi il controllo della soglia del dolore e di fatto l’efficacia del galcanezumab in queste patologie è, come vedremo, meno eclatante di quanto molti sostengono.

L’uso del galcanezumab nell’emicrania
Esaminando la copiosa, recente letteratura sull’argomento, si evince che il galcanezumab è considerato da molti particolarmente efficace nella prevenzione dell’emicranica [Ford et al. 2018, Detke et al.2018, Sacco et al.2019, Raffaelli et al.2019, Ruff et al.2019, Lupi et al.2019, Torres-Ferrus et al.2019, Edvinsson 2019, Abu-Zaid 2020, Frerichs e Friedman 2021, Pozo-Rosich et al.2022, Varnado et al. 2022] e da alcuni addirittura come il farmaco che apre una nuova era nella terapia di questa patologia [Kielbasa e Helton 2019, Giani et al.2019].
Confermando l’efficacia del galcanezumab, Xu e Coll.[2019] segnalano che il principale effetto avverso è una semplice reazione infiammatoria dolorosa nella sede di inoculazione: tesi sostenuta anche da Stauffer [2020] che confermò in seguito che l’effetto avverso più frequente è la reazione locale nella sede di iniezione, peraltro generalmente lieve o moderata e destinata a risolversi spontaneamente.
Per quanto riguarda il dosaggio, Skljarevski e coll. [2018] proposero dosi da 120 a 300 mg/mese e Monteith e coll.[2017] parlarono di una dose singola da 1-600 mg sottocute e dosi successive di 150 mg. Attualmente la Casa produttrice dell’Emgality (fiale da 120 mg) suggerisce un bolo iniziale di 240 mg seguito dalla somministrazione di 120 mg/4 settimane.
Nonostante l’enfasi di queste affermazioni, l’analisi delle esperienze affidate alla letteratura non mi sembrano molto entusiasmanti.
Nell’esperienza di Kuruppu e Coll.[2021], confrontando due gruppi di pazienti emicranici, uno di 230 pazienti trattati con placebo e il secondo di 232 trattati con galcanezumab (240 mg come dose di carico e 120 mg/4 settimane come dose di mantenimento) che non avevano avuto risultati con le terapie tradizionali, nei primi 3 mesi di trattamento “un maggior numero” di pazienti trattati con galcanezuma rispetto a quelli trattati con placebo riportarono una riduzione degli attacchi emicranici uguale o superiore al 50%. Facendo riferimento allo stesso studio ed alla stessa casistica, Schwedt e Coll.[2021] evidenziarono altresì che l’effetto favorevole del trattamento iniziava già il giorno successivo l’inizio della terapia. La stessa constatazione sull’immediatezza del risultato era già stata fatta da Detke e Coll. [2020] e in seguito ulteriormente confermata da Igarashi e Coll. [2021].
Un po’ inquietante è la soddisfazione di Gklinos e Mitsikostas [2021] per il fatto che l’effetto del galcanezumab sia superiore al placebo ed anche lo studio di Ford e Coll.[2019] dove risulta che nell’Emicrania il galcanezumab alla dose di 120-240 mg/mese produce un miglioramento della funzione ed una riduzione della disabilità che per quanto statisticamente signifiatica è appena superiore a quella prodotta dal placebo. Anche Gklinos e Mitsikostas [2020] confrontando il trattamento con il placebo segnalano come positive riduzioni (in realtà minime) nella frequenza degli attacchi emicranici.
Da una review della letteratura, Urits e Cl..[2020] sostennero che il galcanezumab riduce fino al valore del 50% il numero degli attacchi emicranici e che è improbabile che esso possa essere l’unica terapia e che debba essere considerato un trattamento aggiuntivo alle terapiee tradizionali nei casi più gravi di Emicrania.
Un poco più incoraggianti sono gli studi di Martin e Coll.[2020] dov’è segnalata con il galcanezumab una riduzione degli attacchi emicranici dal 50% al 75%, di Hu [2022] dovè seganalata una riduzione del 70% a 3 mesi dalla prima somministrazione e di Stauffer e Coll.[2019] che affermarono che dopo la sospensione del trattamento, gli effetti della cura si riducono ma la situazione non torna alla gravità di prima.
Infine, alquanto disarmante è la comunicazione di Citrome e Coll. [2021] dove si afferma che il NNT per avere un 30-50% di miglioramento dell’emicrania è 4-10 e per avere più del 75% di miglioramento è 5-23.

L’uso del galcanezumab nella Cefalea a grappolo
Il razionale terapeutico per l’uso del galcanezumab nella Cefalea a grappolo risiede nel fatto che in essa vi sarebbe aumento nel plasma del calcitonin gene-related peptide (CGRP) che è un peptide vasoattivo [Snoer et al.2019] e inoltre nella constatazione dell’esiguità delle risorse terapeutiche per questa patologia [Giani et al. 2020].
Per quel che riguarda i risultati, Goadsby e Coll.[2019] testatorno il galcanezumab alla dose di 300 mg/mese in un gruppo di 106 pazienti affetti da CH: a 49 pazienti fu somministrato il galcanezuma e a 56 il placebo: la riduzione del numero degli attacchi settimanali nelle prime 3 settimane fu da 17 a 8 nel gruppo che ricevette il galcanezumab e da 17 a 5 in quello che ricevette il placebo (non scordiamo che dopo 3 settimane parecchi casi di Cefalea a grappo vanno in remissione spontanea!). Nonostante gli Autori considerino un favorevole risultato la riduzione della frequenza settimanale degli attacchi, non mi pare che il risultato sia particolarmente entusiasmante. Basandosi sulla stessa casistica, Pohl e Coll. [2022] evidenziarono che con il galcanezumab si avevano effetti significativo nella prevenzione degli attacchi nella CH episodica ma non c’erano risultati nella forma cronica. Questa opinione era già stata sostenuta da Ossipov e Coll. [2020] e da Pellesi e Coll.[2020] e poi negata da Riesenberg e Coll. [2022] che riferirono un miglioramento dei sintomi di circa l’80% nella CH cronica.

Considerazioni conclusive

Quel che si può ottenere con i FESD (inibitori dei canali del sodio Nav1.7 e tanezumab) non è semplicemente il controllo del dolore ma addirittura l’eliminazione della possibilità di avere il dolore e il raggiungimento di questo miraggio che potrebbe essere considerato come una delle più grandi conquiste dell’uomo moderno, sotto un certo punto di vista può addirittura essere considerato pericoloso perché, esagerando, si rischia di rinunciare all’utile funzione protettiva del dolore. In realtà, questo ragionamento è frutto di un equivoco che nasce dal fatto che quello a cui dobbiamo mirare non è l’eliminzione della possibilità di sentire il dolore come segnale di allarme ma la possibilità di eliminare il dolore come sintomo dopo che questo è stato utilizzato per porre la diagnosi della malattia che l’ha provocato e soprattutto la possibilità di eliminare il dolore quando è malattia di per sè. Certo ci sono sfumature da considerare in questo tipo di ragionamento: ad esempio, non c’è dubbio che il dolore che spinge a ridurre il carico sull’articolazione del ginocchio nella coxartosi serva a limitare l’aggravarsi del danno articolare; però, dopo che il dolore ha segnalato quella patologia, si deve provvedere a correggerla e non ha senso fare affidamento sul dolore per contenerne l’aggramento. In altre parole, la pericolosità dell’elevazione terapeutica della soglia del dolore può aversi soltanto se il conseguimento di questo risultato corrisponde alla follia della rinuncia alla terapia causale quando questa è possibile. Non ci sono dubbi che è sulla base di questa potenziale pericolosità che il 16 settembre 2021 l’Agenzia europea per i medicinali raccomandò il rifiuto dell’autorizzazione all’immissione in commercio del Raylumis (tanezumab).
Queste considerazioni portano a concludere che questi farmaci, lungi dall’essere affidati ad un impiego generico, dovrebbero essere gestiti con la massima competenza e questo è ciò che cercheremo di precisare in questo paragrafo conclusivo. Vediamo quindi quando dovrebbero essere impiegati i FESD e se e quando possono essere preferiti ai comuni analgesici ed alle procedure antalgiche infiltrative e chirurgiche.
Teoricamente ed intuitivamente, i FESD andrebbero usati quando si riscontra una soglia del dolore inferiore alla norma ma in pratica questa verifica è impossibile perché non solo non abbiamo uno strumento di misurazione ma non sappiamo esattamente neppure cosa dobbiamo misurare e quindi non ha alcun senso parlare di una soglia e tanto meno di un livello di normalità con dei valori al di sopra e al di sotto.
Si potrebbe tentare di aggirare questo paradosso misurando il numero o la funzionalità dei canali del sodio Nav1.7 ma non disponiamo dei mezzi per attuare questo tipo di misurazione. Teoricamente, un metodo indiretto potrebbe essere quello di misurare a livello sistemico (nel sangue) i geni che regolano il trofismo dei canali del sodio e il massimo proposto a questo riguardo è il dosaggio nel siero del gene che aumenta il numero dei canali del sodio: la già ricordata proteina a forcella Foxol 1 [Long Zhang et al.2021].
Più semplicemente ma anche molto più grossolanamente, si potrebbe pensare a metodi semeiologici fisici per misurare la soglia del dolore che presuppongono la quantificazione dell’energia per evocare dolore, per esempio, con la pressione, vale a dire quel che facciamo con la digitopressione o, se vogliamo essere più raffinati, con le apparecchiature proposte a questo scopo che, pomposamente definite algometri, consistono in un pistone a punta smussa da premere sulla parte da esaminare, collegato a un manometro che indica la pressione che esercitiamo. Una misurazione di questo tipo indica la risposta goggettiva (e già questo è un limite) nella zona dove la pressione viene esercitata e quindi indica la soglia del dolore in quel punto, vale a dire se in quel punto c’è normoestia o iperestesia-allodinia. Quindi, per avere un’informazione sulla soglia del dolore di un individuo, questa misurazione non andrebbe effettuata in una zona dolente ma in una zona o meglio in una serie di zone dove il paziente non ha dolore.
Un metodo più raffinato potrebbe essere l’impiego della vecchia neurometria confidando sul fatto che con frequenze di stimolazione elettrica diverse vengono stimolate diverse categorie di fibre nervose: in particolare, con la corrente a 2000 Hz si stimolano le fibre Aß, con la corrente a 250 Hz le fibre A e con la corrente a 5 Hz le fibre C. Nato per valutare quantitativamente la sensibilità di un territorio cutaneo e soprattutto per evidenziare e tipizzare l’allodinia, lo strumento usato non sulla zona del dolore ma su zone dove il paziente non ha dolore potrebbe dare informazioni sull’eccitabilità delle fibre Aβ, Aδ e C.
Non equivalendo affatto alla misurazione obbiettiva della temperatura corporea, tutte queste tecniche di misurazione hanno lo svantaggio di dare risposte soggettive, variabili quantiativamente da un individuo all’altro (questo difetto potrebbe essere superato stabilendo una media in un congruo campione di soggetti) e da una osservazione all’altra nello stesso individuo in base allo stato emotivo (ansia, paura e aspettative).
In definitiva, non potendo contare su riscontri obbiettivi, l’unico modo per decidere se usare o no i FESD dovrà essere il confidare su valutazioni cliniche indirette, vale a dire sulla diagnosi patogenetica del dolore. Quindi gli ipotetici e si spera futuri farmaci che bloccano i canali del sodio Nav1.7 e il NGF saranno indicati:
1. nelle patologie dove il principale meccanismo patogenetico è la ridotta soglia del dolore, vale a dire l’Emicrania, la Cefalea muscolotensiva, il Dolore neuropatico da patologia delle piccole fibre, la Sindrome della bocca che brucia, la Neuropatia trigeminale, il Dolore dell’arto fantasma, la Sindrome del colon irritabile, la Sindrome dell’ipersensibililità rettale idiopatica e del dolore parossistico estremo, lo Stato del paziente incline al dolore, il Dolore da malattia degenerativa sistemica dell’anziano e…la (tanto di moda) Fibromialgia;
2. nelle patologie dove la soglia del dolore condiziona la gravità della sintomatologia o addirittura la sua comparsa. Sembra che lo stesso danno neuropatico produca il dolore in alcuni soggetti e non in altri per una modifica strutturale a livello molecolare del tessuto nervoso dovuta ad una mutazione genetica di alcuni sottotipi di canali ionici voltaggio-dipendenti del sodio [Shou et al.2011]) e del calcio [Hildebrand et al.2011];
3. quando il dolore non è più utile ai fini diagnostici;
4. quando il dolore è dovuto ad una patologia che non può essere curata come il cancro.
Resta ancora il problema di decidere quando in queste situazioni conviene usare i FESD o i classici analgesici e le terapie antalgiche infiltrative e chirurgiche.
Un criterio banale potrebbe essere quello di scegliere i FESD quando le terapie tradizionali hanno fallito o sono state insufficienti…ma è meglio pensare all’opportunità di usarli in presenza di effetti collaterali rilevanti con la terapia farmacologica e soprattutto quando essa dovrebbe essere protratta per tutta vita (specie se con gli oppiace): in questo caso, un mezzo per eliminare la possibilità di sentire il dolore potrebbe essere preferibile perché si presume senza effetti collaterali. Per quanto riguarda quando si tratta di scegliere tra i FESD o la terapia antalgica infiltrativa o chirurgica, credo che vada scelta la seconda opzione tutte le volte che questa può essere risolutiva come nel caso della Termorizotomia nella nevralgia del trigemino o del blocco peridurale anestetico-steroideo nella radicolopatia lombosacrale.
Infine, credo che non vadano mai impiegati i FESD nel trattamento del dolore acuto destinato a risolversi spontaneamente in breve tempo (come quelli post-operatorio o post-traumatico) e dove gli analgesici sono sufficienti.
In definitiva, pur essendo doverose una ragionevole cautela e una notevole competenza nel confidare sull’effettiva efficacia e sulla sicurezza di questi ipotetici farmaci, non si può fare a meno di pensare che forse, finchè non saranno a nostra disposizione, in alcune patologie il controllo del dolore non potrà che restare solo parziale e in alcune addirittura impossibile. 

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